Nella
sala da pranzo il sontuoso banchetto in mio onore. Pier
Paolo Pasolini mi venne incontro e togliendomi dalle mani
la ventiquattrore con affetto mi baciò, sulla guancia.
Partì l’applauso lungo e scrosciante dei commensali,
in piedi tutt’intorno alla tavola magnificamente imbandita
e decorata da spettacolari invenzioni floreali, mentre Tonino
Delli Colli e Deborah Beer scattavano le foto. Fui ricevuto
con cordialità da tutti indistintamente, si può
dire, così come nessuno faticò a comprendere
il mio imbarazzo per una tale inaspettata accoglienza. Fra
i tanti convenuti, riconobbi subito il Duca Blangis, il
Presidente della Banca Centrale Durcet, Sua Eccellenza il
Presidente della Corte d’Appello Curval, il Vescovo, le
signore Castelli e Vaccari. Seduti sulle poltrone che erano
sistemate in gran numero lungo le quattro pareti della sala,
conversavano concitatamente militari, serve e ruffiani,
mentre al di là della tavolata la signora Maggi aveva
già preso a ballare con un giovane repubblichino.
I collaborazionisti si erano riuniti nell’angolo della musica
e qui ascoltavano il maestro Graziosi esibirsi al pianoforte,
con l’adorabile virtuosa, in un’Amapola a quattro mani.
«Quindi non sapeva niente» esordì il
Presidente Durcet. (Nel cuor della Pampa profumata va
(1)… no, no maestro, daccapo per piacere, ché
mi son distratta… E smettetela voi! mentre rideva il
bel repubblichino)
«E come avrebbe potuto?» lo corresse garbatamente
la signora Vaccari. (Nel cuor della Pampa profumata…)
«La madre è stata abilissima nel tacere fino
all’ultimo, sapete?»
«E allora un brindisi alla mamma!» esclamò
giocondo Sua Eccellenza il Presidente Curval, tenendo alta
sulla testa, in bella vista, una fotografia di mia madre
in vacanza a Viareggio nel 1971.
(…va il suon d'una dolce serenata…)
«E brava la signora! È stata davvero eccezionale!»
Tra gli applausi generali (…Tra i fior canta il gitano
alla sua amata…), come mi fu porta una sedia, presi
posto fra il poeta di Casarsa ed il vescovo, che non ricordavo
così avvizzito.
(…la bella canzon, con immensa passion…)
«Bene bene bene! – disse Pasolini euforico, cadenzando
con tre pacche sulla mia gamba – Alla fine ci siamo decisi,
eh?» (…Amapola, dolcissima Amapola…) «Ma
mi sembra pure giusto, voglio dire, che motivo c’era di
perdere altro tempo?»
«Sì, infatti» lo assecondai (…la
sfinge del mio cuore sei tu sola…) «E voi? State
lavorando da queste parti?» gli chiesi glissando.
«No, per carità. Siamo a riposo in questo periodo.
Siamo venuti in Sicilia apposta per la tua festa, non sei
contento?»
«Ma certo, Pier Paolo» mi affrettai a rassicurarlo
(…io ti bramo, t'invoco follemente…) schioccando
le dita ad un partigiano perché ci versasse da bere.
«Proprio ora» continuò il Maestro dopo
aver mandato giù, tutto d’un fiato, un bicchiere
di Nero d’Avola «abbiamo finito di girare una cosetta
tra Roma e Mantova, ma ti dirò, non ne sono molto
convinto. Più che altro si tratta di un esperimento,
una struttura che volevo provare…»
(…per dirti t’amo appassionatamente…)
«Sì, va bene! Ogni volta dici così e
poi viene fuori il capolavoro!»
«Ah ah! – altre due pacche sulla gamba – Ci siamo
divertiti un sacco. Allora, prima li ho portati a Gardelletta,
vicino Vado, in Emilia Romagna, dove siamo rimasti a girare
per un paio di settimane. Tutte le sere andavamo a cenare
da una signora… com’è che si chiamava la locandiera
giù a Gardelletta?» vociò rivolgendosi
al Presidente, che più in là stava facendo
quattro salti con un subalterno.
«Rosanna!» si sentì dal mezzo della calca.
(…Amapola, vaghissima Amapola…)
«La signora Rosanna, bella donna, magari un po’ in
carne ma bella, bella capisci? In questa trattoria facevano
un pollo alla diavola… e il vino!» (…la luce dei
miei sogni sei per me…) «Il vino era la fine
del mondo! Poi ci siamo trasferiti a Bologna. Tu sei mai
stato a Villa Aldini, a Bologna? – mi chiese a bassa voce,
invitandomi ad accostarmi con la sedia in maniera che il
Monsignore non potesse ascoltare – Gli amici, qua, sono
stati una rivelazione. Dunque, l’idea era questa: prendiamo
i quattro baggiani e tutti ‘sti ragazzi che hanno fatto
il provino, va bene? e segreghiamoli dentro la villa per
tre quattro giorni. Pensa tu che il Monsignore» aggiunse
sogghignando «quando gli ho illustrato il progetto,
aveva nientemeno proposto tre mesi! Ah ah!» (…deliziosa,
armoniosa come il suono della mia mandola…) «Alla
fine sono stati quattro giorni.»
«Ma di che si tratta? È una cosa che poi si
vedrà, in giro?» gli domandai.
«Guarda, riconosco che il concetto di fondo del reality
show è forse un po’ troppo abusato: l’osservazione
invasiva e senza soluzione di continuità, la competizione
in vitro fra i tradotti bla bla bla» (…Di già
spunta l’alba giù lontano…) «ma io non
ho saputo resistere alla tentazione di lasciarli fare da
soli, soli senza l’assillo del copione. Sapessi le cose
che si sono inventati… E quelle quattro! – disse chiudendo
gli occhi e stringendosi il pugno sulla bocca, come per
impedirle di aggiungere altre parole – Le cose! Cose dell’altro
mondo!»
«Ma chi, le signore?»
(…e ancor canta il misero gitano…)
Mi si avvicinò ancora di più «Sai che
sono ex meretrici?» quasi abbracciandomi.
«Maestro! – l’interruppe Antinisca, bellissima – Gradisce
dell’altro vino, Maestro?»
«Sì, mia cara, lascia pure qui la caraffa –
subito la congedò – ci pensiamo noi» (…lassù,
dalla sua amata attende invano…) Pasolini seguì
con gli occhi la ragazza mentre se ne tornava fra i compagni;
poi, riaccostandosi a me: «L’hai vista la Nemour?
Candida, aggraziata, d’altra e più preziosa fattura
rispetto alla media, eppure…» (…un bacio ed un
fior…)
«Non saprei, non la conosco…»
«D’accordo, tanto alla fine sono tutte uguali. Ma
ti stavo dicendo delle megere. Guardale là come si
atteggiano a grandi signore, e invece sapessi… la Maggi,
per esempio, prova a chiedere della signora Maggi, a Rovigo,
in giro per strada: la conoscono tutti. Non parliamo poi
degli onorabili “Signori”: chi avrebbe mai potuto immaginare
una cosa del genere…»
«Ma che cos’hanno combinato?»
«Cose indicibili» (…un sospiro d'amor…)
«Di certo non sono storie da raccontare a tavola,
ma ti dirò, vedrai…»
«Ragazzo mio» (…Amapola…) si intromise
il Monsignore prendendomi sotto braccio e tirandomi a sé
«ti posso dare del tu, vero? D’altra parte, potrei
esserti padre. Padre? Tuo nonno, potrei ben essere! Vedi,
noi, stasera, per te soltanto siamo qua venuti da…»
«Ma toglietevi le maschere! – sbottò la signora
Maggi che intanto stava ancora ballando col suo bellimbusto
– Quanto deve durare questa messinscena?» allontanando
ora da sé l’aitante giovanotto «Io sono stanca
e mi fanno pure male i piedi» (…dolcissima Amapola…)
«Se dobbiamo fare, facciamo adesso, ché mi
son proprio scocciata!»
I convitati si guardarono l’un l’altro con imbarazzo, turbati
dall’esclamazione della Megera «Mia cara – disse allora
il Presidente – mi voglia perdonare, ma trovo questo suo
imbizzarrirsi in forte contrasto col tenore solenne della
celebrazione. Non si sta divertendo abbastanza, forse? Oppure
è affamata? Devo confessarmi stupito dal fatto che,
fra tutti, sia lei a lamentarsi delle nostre facezie, giusto
lei che in passato ha mostrato mirabili doti di remissività,
persino in circostanze più delicate e perché
no, più problematiche di questa.»
«Il fatto è, illustre Presidente, che gradirei
di andare subito al sodo e, come me, credo pure tutti gli
altri in sala d’attesa, anche se non hanno il coraggio di
venirvelo a dire. Pure il nostro gentilissimo ospite sarà
stanco, credo, a questo punto della giornata.»
«Ma c’è gente in sala d’attesa, mi è
parso di capire… – farfugliai – Ci sono degli altri?»
«Il giovanotto è fuori di casa da stamani,
suppongo, perciò ritengo che più di chiunque
altro gradirebbe si passasse al dunque. E poi, vista la
famigliarità, non ce ne vorrà se decideremo
di sorvolare sull’etichetta…»
«Lei che ne pensa?» mi interpellò flemmatico
il Presidente della Banca Centrale, masticando una carruba.
(…la sfinge del mio cuore…)
«Tu che ne pensi?» chiesi sottovoce a Pier Paolo
seduto al mio fianco, che fra tutti era quello che conoscevo
meglio. Puntandomi due dita dritte sulla guancia che gli
avevo porto, mi raddrizzò la testa, facendomi cenno
di guardare in avanti.
«No, non ti voltare, mi avvicino io – disse – tu guarda
dritto là: lo vedi il cameraman? Anche quando mi
parli, cerca di non perderlo mai di vista quello, sennò
che l’abbiamo portato a fare? E io che ne penso… Ti dirò
la verità, la festa comincia ad annoiarmi. Ad ogni
modo – e lo faccio per te, ricorda, solo per te – io resto
finché vuoi. La festa è tua e decidi tu che
farne, ma gli attori sono i miei e per quanto si lamentino,
fino a quando non mi alzo io da qua nessuno si muove.»
(…sei tu sola…)
«Va bene – feci allora, senza neppure sapere che cosa
mi stessi accingendo a legittimare – va bene, signor Presidente.
Capisco che siamo più o meno tutti provati, è
stata una giornata dura per tutti noi. Mi trovo quindi d’accordo
con la signora e mi sta bene, tanto più che siamo
in famiglia. Possiamo andare avanti.»
«Ah! – sospirò la Maggi piena di soddisfazione
– almeno qualcuno qui è comprensivo! A lei dunque,
Maestro!»
Il poeta si alzò un poco traballando e subito un
giovane lacchè corse a riempirgli il bicchiere. Con
qualche difficoltà si arrampicò su una poltrona
ed enfatico esclamò: «Giù le maschere!»
A questo comando, uno ad uno vidi i convitati staccarsi
dal viso le maschere che riproducevano i loro stessi volti,
con una tale fedeltà che mai avrei pensato si potesse
trattare di posticci. Eppure, l’attore Paolo Bonacelli si
tolse la maschera del Duca Blangis, Giorgio Cataldi quella
del Vescovo, Umberto Paolo Quintavalle quella del Presidente
Curval e così via dicendo. Al posto della faccia
del Presidente Durcet vidi spuntare quella di Aldo Valletti,
che quella stessa faccia aveva; la signora Castelli era
Caterina Boratto, Elsa de’ Giorgi la signora Maggi, Hélène
Surgère la signora Vaccari, al cui fianco comparve
pure Laura Betti che la doppiava. L’ultima a svelarsi fu
Sonia Savange, la virtuosa.
«Miei cari amici» disse a questo punto il regista,
che intanto mi pareva vistosamente alticcio, rivolgendosi
ai quattro signori «mie gentili e graziose narratrici»
protendendo ora il calice verso le quattro dame «oggi
è un grande giorno. Oggi, tredici giugno millenovecentonovantuno,
noi tutti immensamente gioiamo nel consegnare il nostro
amico alla dolce letizia degli sponsali. Non una sola parola
per la giovane sposa» (…io ti bramo…) «che
in questo preciso istante sarà lontana» (…t'invoco
follemente…) «e chissà dove, a tribolarsi
in nostra vece, a sopportar le fatiche della vita mentre
invece noi brindiamo. E non una parola per suoi genitori,
i genitori dello sposo intendo, semplicemente perché
noi non li abbiamo invitati. Esorto dunque i presenti, nessuno
escluso, a brindare alla fortuna di questo giovane promettente,
perché, come amo spesso dire, di vita ce n’è
una soltanto, dannatamente breve per giunta, ed è
giusto che uno cerchi di godersela quanto più possibile.
Felicità!»
Il genio venne tirato giù dalla sedia prima che precipitasse
e buttato a dormire sopra a un divano, mentre fra gli applausi
scroscianti i giovanotti riprendevano a ballare.
Finalmente rincuorata, mi si avvicinò la signora
Maggi e congratulandosi mi porse il bicchiere, dopodiché
con discrezione mi tirò in disparte e sottovoce mi
disse che, a quel punto, se fosse stato per loro sarebbero
pure rimasti, ma siccome il Maestro aveva alzato un po’
il gomito forse sarebbe stato meglio togliere il disturbo,
tanto più che al resto avrei potuto provvedere anche
da solo.
«Mi perdoni, signora, ma a che cosa si riferisce?»
«Ma al piatto forte, il dolce nuziale. Già,
si vede che la sua mamma non le ha svelato proprio nulla.
Certo che sarebbe stato davvero un peccato, giusto adesso
poi, dopo mesi di preparativi. Sei mesi, sa? Son sei mesi
che ci lavoriamo, a questa cosa.»
«Non vorrei sembrarle scortese, ma continuo a non
capire…» (…per dirti t’amo appassionatamente…)
«…sarà la stanchezza…»
«Pazienza, mio caro, resista ancora un po’ e vedrà
che le piacerà. Suvvia, un altro piccolo sforzo e…
altro che, se le piacerà!»
«No signora, il fatto è che devo aver esagerato
col vino. Non mi sento troppo bene. Forse… forse dovrei
sdraiarmi un momento…»
«Che succede, signora?» si avvicinò un
militare.
«Oh, non è nulla, non è nulla! Vai a
chiamare il Presidente, va’, e digli di venire subito da
me.»
Il soldato tornò immediatamente con Aldo Valletti,
in arte Durcet, ed il signor Marco Bellocchio, il suo doppiatore.
«Il nostro ospite è stanco, Aldo, togliamo
il disturbo. Adesso lei si metta comodo e non tocchi alcunché.
Delle pulizie se ne occuperanno gli incaricati, domattina.»
«Cerchi di rilassarsi un po’ – mi raccomandò
Valletti «E se la goda…» Bellocchio echeggiò
giustamente – poi ci farà sapere com’è andata,
mi auguro» e si congedò sogghignando «Si
parte! – esclamò dunque – dov’è la mia giacca?»
Non ebbi il tempo di ragionare sui loro discorsi che fui
solo nell’arco di cinque minuti. Mi abbandonai un poco frastornato
sul divano che ancora tratteneva il calore del corpo di
Pier Paolo Pasolini, mentre le luci di casa si spegnevano
una ad una; sentii la porta d’ingresso finalmente chiudersi
e l’eco spiraliforme (…Amapola…) della canzone
spagnola perdersi entro l’abisso della tromba delle scale.
Di fuori, adesso, proprio tutto taceva, anche la banda aveva
smesso di suonare, come se l’intero paese si fosse infine
ritirato, borgata a borgata, la gente rintanata entro le
fresche camere da letto, la festa ormai finita.
Era tardi. Stavo immobile a gingillarmi col pensiero di
una creatura affatto familiare (…vaghissima Amapola…)
bensì nuova e sconosciuta, che volesse occuparsi
di me in quel preciso istante, che fosse ben disposta a
massaggiarmi le tempie con un sapiente movimento di dita
a rotazione, donandomi quel torpore che solo le mani inventate
sanno dare, quando svanì d’improvviso l’immagine
della bella odalisca disposta a tutto (…la luce dei
miei sogni…) e la stanza si riempì di un tenue
barlume azzurrognolo. Esso proveniva da dietro il televisore
spento, qualche cosa rilucendo al di là della porta
a vetri che divide il salone dall’ingresso. Così
c’era ancora qualcuno, non ero affatto solo. Mi tirai su
e mi misi a sedere. Una forma sfocata apparve dietro alle
lastre, sinistramente distorta dal vetro sabbiato, che le
due mezze porte lentamente incominciarono a scorrere.
(…sei per me…) Un tonfo al petto, proprio come quella
volta che, sullo Stretto di Messina, mi affacciai dal ponte
della nave e sul mare un tronco galleggiava alla deriva.
Uno strappo all’anima come vidi che era lei: il mio primo
autentico amore disperato, incolpevolmente smarrito, la
donna del resto mai mia e adesso dalle mie braccia giustamente
distante, lontana da me chissà dove e chissà
quanto… “Ora vado a vomitare” (…deliziosa…) pensai,
passandomi una mano pesante sulla faccia, a cancellare ragnatele
di fiacchezza. Ma là, oltre le dita sugli occhi,
nell’angusto vuoto tra le falangi lei c’era ancora, terribilmente
vicina e di terribile carne; era nella stanza, proprio davanti
a me e verso di me veniva. Assomigliava ad una statua greca,
con due bracieri traboccanti d’incantesimo al posto delle
orbite.
Mai l’avevano sostenuta gambe così belle e due piedini
tanto graziosi, come mai ne avrei riconosciuto le spalle,
che ora erano tonde e lucenti come le sfere delle chiromanti.
Indossava un vestito da sposa, bianco e finemente ricamato,
con una fascia semitrasparente tutt’intorno al ventre che
ne rivelava la generosità, ed avanzando, le mani
invitanti verso me protendeva. Solo quando mi si fermò
ad un passo vidi (…armoniosa…) la grande macchia
scura stagliarsi sui merletti del petto rigoglioso: una
chiazza di sangue vivo che ristagnava dallo sterno all’addome
dell’angelo, spandendosi a cerchio entro le trame dell’abito
in mille rigagnoli di morte. Puntandomi con gli occhi spenti,
le iridi coagulate e di un colore azzurro opaco come di
antico vetro dissepolto, immobile e muta, un fantasma, da
sopra la tavola prese un vassoio di cristallo e lo ripose
ai miei piedi. Poi, allargandosi la scollatura insanguinata
con una mano, vi infilò dentro l’altra a cercar qualcosa
al seno e rovistando qualche cosa alla fine trovò
e di scatto l’afferrò. In quell’istante sentii una
fitta lancinante avvamparmi il petto, mentre sul palmo della
mano lei teneva un cuore. Era il mio quel cuore che mi offriva,
come mio era pure il sangue di cui aveva intrise le vesti.
«Così mi rendi la vita, amore mio. È
finita, dunque» implorai, singhiozzando (…come
il suono…)
Mi porse il vassoio ed aprendo le braccia mi trasse al suo
seno, sicché potei bere gaudente e fino all’ultimo
sproposito. Così presi a cibarmi della mia innocenza
perduta, masticai il mio stesso cuore. Lo deglutii caldo,
ancora intriso del sapore delle sue mammelle mature.
(…della mia mandola…) |
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