Quanto
è importante la competenza tecnica e quella artistica
nel lavoro di iarumasami?
Così
come la paternità di un’opera appartiene alla persona
e non al mezzo, per la semplice considerazione che la bellezza
è nella persona più di quanto essa sia nel mezzo
che da quella bellezza è attraversato, vi è
da dire che il solo talento, giusto per la sua naturale fugacità,
difficilmente può bastare al raggiungimento del più
alto obiettivo, laddove esso non sia supportato dallo studio,
la costanza nel duro lavoro, la fermezza e – rarissima virtù
– dall’umiltà: sarebbe come pretendere di vincere il
Giro d’Italia per il solo fatto di desiderarlo visceralmente,
senza però dedicarsi ad un lungo e impegnativo allenamento.
Per converso, la medesima analisi va affrontata con riguardo
alla valenza di una vasta preparazione teorica ed una conoscenza
tecnica approfondita, ove manchino l’entusiasmo e il sentimento
(è classico l’esempio del pianista accademico la cui
esecuzione, impeccabile sotto l’aspetto tecnico, risulti priva
di passione).
Teoricamente, sarebbe quantomeno auspicabile un giusto equilibrio,
con la consapevolezza che solo alla storia è rimesso
il giudizio definitivo sulla correttezza (e il successo) delle
percentuali di tecnica e talento.
Per quanto riguarda l’incidenza delle competenze sul mio lavoro,
in vista della realizzazione del nuovo cortometraggio posso
coscientemente affermare di essermi applicato, dedicandomi
con costanza allo studio appassionato di pubblicazioni illuminanti,
le quali hanno indiscutibilmente accresciuto le mie capacità
organizzative. Eppure, sento che l’accademia ha poco a che
fare con questo nuovo impegno: le singolari personalità
che mi accingo a perscrutare, le intelligenze straordinarie
con cui per fortuna ho a confrontarmi mi seducono, inducendomi
ad abbandonarmi all’istinto.
E poi, in un anno intero di valutazione tanto del contenuto
dell’opera quanto del perché fosse importante svelarlo,
in me è andata crescendo la convinzione – oggi forte
più che mai – che la nuova storia sia come avvolta
da un’aura di fascino potente e ineluttabile.
Quanto precede è ben lontano dal costituire una sorta
di dichiarazione implicita di abdicazione dell’io regista:
viceversa, sento fortemente mia la responsabilità di
una direzione avveduta e passionale, così come credo
fermamente nell’autorialità (e, non di meno, nell’autorità
della direzione) di cui sarò costantemente chiamato
a rendere conto. In ciò concordando perfettamente con
Michael Rabiger allorquando definisce “paradossale” il concetto
di regia, in dipendenza del fatto che ad un certo punto, durante
il processo di post-produzione o anche prima, il regista si
trovi immancabilmente a dover “cedere il comando” ad una qualche
verità più alta che il film inizia a trasmettere.
«Funziona così: il materiale montato inizia
a fare delle richieste pressanti, imponendo a voi e al vostro
montatore la forma finale che vuole assumere. Esso comincia
ad affermare la propria natura, ad avere i suoi difetti e
le sue imperfezioni, e a prendere decisioni autonome. Con
stupore e piacere vi renderete conto di assistere allo spettacolo
del vostro film che si fa da sé» (Micheal
Rabiger, Directing, © 2002 Elsevier Scienze
– USA).
È esattamente quanto ho sempre sostenuto, sin dai tempi
della mia prima pubblicazione letteraria (Sali
in macchina a dirmi – venti cose brevi, 2004,
Ed. Progetto Cultura), argomentando di scrittura automatica
e autonomia del soggetto letterario.
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