«Proprio
sotto tale specifico aspetto mi trovo in convinto disaccordo
con quanti definiscano la fine biologica – per quanto
nel suo più estremamente traumatico realizzarsi
– un evento innaturale, a meno che non si dichiari l’assunzione
di tale posizione come effetto di un’impostazione fissamente
cristiana dell’argomentare. Orbene,
la morte del corpo fisico è l’essenza stessa della
vita. La vita ha il suo senso nella morte. Non vi è,
per chi vi parla, un fatto più naturale della morte.
In tale ottica, rispetto al finire, è certamente
più traumatica ed innaturale l’esperienza fattuale
del venire al mondo. Ma attenzione: così come vita
ed esistenza non si equivalgono, non si equivalgono necessariamente
morte e sofferenza. La prospettiva della fine imminente
e il dolore si assommano invece in Enea Petrini, che qui
è veicolo di sofferenza.
Salvatore
Natoli – accademico e filosofo pattese la lettura
del cui pensiero devo ad uno “stimolatore” di nome Francesco
Gusmano e che, tra l’altro, è propugnatore
di un neopaganesimo, ossia di un’etica che riesca a fondare
una felicità terrena nella consapevolezza dei limiti
dell'uomo e del suo essere necessariamente un ente finito,
in contrapposizione con la tradizione cristiana (vgs.,
in particolare, La salvezza senza fede) – riflette
sul fatto che nella morte in qualche modo si è
sempre soli, ma questo non è di per sé un
danno. Se la rimozione della morte ammala la società
di falso ottimismo, la morte privata, la sobrietà
e il pudore danno alla morte una dignità forse
più alta di un pubblico cordoglio, ritualizzato
e senza amore. Ma la morte segreta può essere bella
se non è abbandono. Per morire bene, bisogna morire
per qualcuno, cioè è difficile, ma non impossibile.
Morire per qualcuno significa consegnarsi a qualcuno,
non lasciare un'eredità, ma potersi lasciare in
eredità, essere accolti nella vita da altri e continuare
a vivere in loro, nonostante la morte. Questo può
essere un bel modo per morire.
Anche
Heidegger, il grande filosofo contemporaneo,
riflette sul fatto che nella morte il soggetto non è
mai sostituibile. Cioè è proprio la morte
l’unica occasione per un uomo in cui è egli il
protagonista assoluto e non può essere sostituito
da nessuno. Quindi nella morte il soggetto fa l’esperienza
più propria, ossia della sua radicale unicità.
È per forza della morte, dunque, che noi siamo
unici.
Ritengo
non superfluo aprire una brevissima parentesi sulle tre
diverse posizioni assunte riguardo alla morte dalle più
diffuse tradizioni religiose:
1) la morte come illusione (dunque la morte come
non-problema. In tale posizione rientrano il monismo spiritualista
delle religioni del contesto indù (Induismo e Buddismo)
ed il monismo naturalista delle religioni estremo-orientali
(Taoismo, Confucianesimo e Shintoismo). Poiché
per il monismo l’individualità è un’illusione,
è illusione anche la vita di ogni uomo. E se è
illusione la vita di ogni uomo, allora diviene illusione
anche la morte; ciò perché la morte è
morte dell'individuo, anzi di quell'individuo così
come storicamente è vissuto);
2) la seconda posizione è quella della morte
come valore (in questa tipologia rientra l’Islam);
3) infine, la terza posizione, ossia la morte come
questione, riguarda essenzialmente l’Ebraismo e il
Cristianesimo. Secondo il pensiero ebraico e quello cristiano
la morte – così come la sofferenza e la malattia
– è contraria alla natura dell’uomo. Essa non era
nel progetto originario di Dio, ma è scaturita
dal peccato originale. Per questo, tanto l’ebreo quanto
il cristiano possono temere la morte. Il Cristianesimo
va oltre. Pur non giustificando fobie nei confronti della
morte (che significherebbero mancanza di fede), ne legittima
il timore.
Mi
sono recentemente imbattuto in un’intervista rilasciata
da Ermis Segatti, docente di Storia del
Cristianesimo e di Teologie Extraeuropee presso la Facoltà
Teologica di Torino: ebbene, il presbitero sostiene che
esperienze quali il dolore, la sofferenza, la malattia,
la nascita e la morte bussino alla porta dell’oltre da
noi. Possiamo ragionevolmente supporre che in essi vi
sia sempre qualche aspetto che ci mette di fronte all’al
di là della nostra esperienza, di fronte alla causa
frontale e finale della vita in quanto tale. S.
Agostino, in proposito, suggerisce una eloquente
immagine per esprimere l’atteggiamento di rispetto reverenziale
(non di sgomento o di tabù) da assumere verso una
simile soglia del nostro esistere: «Nulla – dice
S. Agostino – così poco ci appartiene quanto la
nostra vita». Per affermare che la dimensione più
profonda della vita non è, in definitiva, descrivibile
in termini di possesso, non è un segreto aperto
a possibili scoperte future. La vita è un dato
che ci precede nella sua prima origine, un dato che analogamente
sfugge al nostro possesso nel suo esito finale. Il termine
forse più adatto al rapporto con la vita è
quello della responsabilità nei confronti del suo
orientamento, ma non la padronanza assoluta sulla sua
origine e sulla sua fine. Oppure silenzio e rispetto,
accompagnamento, misericordia, pietà. Le
spiritualità, molteplici e varie nel tempo, si
concentrano intorno a questa responsabilità: la
sofferenza e il dolore rappresentano certo un punto importante
della loro proposta e in un certo senso anche il banco
di prova della loro validità. Esse tentano in vari
modi di predisporre il nostro animo, la nostra coscienza
alla accettazione del fatto che proprio dentro tali esperienze
possiamo maturare un livello più profondo di percezione
del nostro essere. Quando la nostra corporeità
versa in condizioni precarie, la coscienza sembra più
facilmente portata a superare ogni delirio di onnipotenza.
Rainer
Maria Rilke, poeta e scrittore austriaco di origine
boema oggi riconosciuto come il maggior poeta tedesco
dell’età moderna, ne Il libro delle ore, scrive
che ad ognuno è data la sua morte, quella morte
che viene da una vita in cui si è trovato amore,
senso e pena. «Noi siamo soltanto il guscio e la
foglia. Il frutto attorno a cui tutto gira è la
grande morte che ognuno ha in sé. È questo
che rende la morte estranea e pesante: che non è
la nostra morte; è una morte qualunque che infine
ci prende soltanto perché non ne abbiamo maturato
una nostra; perciò una tempesta viene a spazzarci
via tutti».
Certo,
vi sono posizioni ben più drastiche assunte da
pensatori, intellettuali e più o meno volgari fanfaroni
sulla specifica tematica, ma, in particolare, ve n’è
una cui sono intimamente legato da profondo trasporto
e, se possibile, ancor più profonda condivisione.
Nell’alveo della lunga ed appassionata conversazione con
Giancarlo Dotto in Vita di Carmelo
Bene, all’affermazione di Dotto che fosse opinione
molto diffusa che Bene nutrisse un amore smisurato per
la propria persona ed una nozione assai vaga del prossimo,
Carmelo Bene sostiene che «tutti
siamo in putrefazione continua. Soltanto che non tutti
se ne rendono conto. Se non allo stadio terminale. Ci
vuole una metastasi perché ci arrivino. Non si
sentono in metastasi prima, quando sono “nel fiore”. Non
si sentono meta(e)stasiati».
E
giusto parlando di Carmelo Bene, ricordando la sua fissazione
con la necessità che l’uomo debba smetterla di
produrre capolavori, cercando viceversa di essere capolavori,
e da qui escogitando un rapporto sillogistico tra capolavoro,
arte e uomo (premesse tutte egualmente inconcludenti per
chi vi sta parlando), mi viene in mente l’Estetica
del brutto, un libro del 1853 di Karl Rosenkranz,
discepolo di Hegel. Per Rosenkranz vi è anche un’arte
brutta, in cui il brutto non solo è qualcosa che
l'arte non deve escludere, ma è qualcosa di cui
l'arte e la bellezza hanno bisogno, cioè un'opera
d'arte è tanto più bella quanto più
grande è la quantità di negativo, di brutto,
che ha dovuto vincere. Se l’arte resta pacificata, se
l’arte non si scontra coi grandi problemi che sono inafferrabili,
ma che rappresentano il male del mondo, le patologie della
realtà, quest’arte non avrà nessuna possibilità
di grandezza.
Dopo
questa citazione (ed il ricordo di quell’appasionata lettura),
pur rovistando, trovo davvero poco nel mio sensorio comune
e nella mia esperienza di apprendista che ha minimamente
appreso, con cui possa togliermi il sapore di quel Bene,
per cui passo la parola all’autore Vittorio Rombolà,
concludendo con quanto recita Nino
Valenti, nella sua Riflessione:
Si
cerca Dio tra i flutti,
nelle intemperie e le tempeste;
si cerca nel dolore e nella morte.
Prova a cercarLo al sole,
quando gioisci e canti,
quando tu vivi.
Cercalo nella gioia!
Lo troverai, se soffri!» |