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«Mi
trovo in convinto disaccordo con quanti definiscano la fine biologica
– per quanto nel suo più estremamente traumatico realizzarsi
– un evento innaturale, a meno che non si dichiari l’assunzione
di tale posizione come effetto di un’impostazione fissamente cristiana
dell’argomentare. Orbene, la morte del corpo fisico è l’essenza
stessa della vita. La vita ha il suo senso nella morte. Non vi
è, per chi vi parla, un fatto più naturale della
morte. In tale ottica, rispetto al finire, è certamente
più traumatica ed innaturale l’esperienza fattuale del
venire al mondo. Ma attenzione: così come vita ed esistenza
non si equivalgono, non si equivalgono necessariamente morte e
sofferenza. La prospettiva della fine imminente e il dolore si
assommano invece in Enea Petrini, che qui è veicolo di
sofferenza. Salvatore Natoli – accademico e filosofo pattese la
lettura del cui pensiero devo ad uno “stimolatore” di nome Francesco
Gusmano e che, tra l’altro, è propugnatore di un neopaganesimo,
ossia di un’etica che riesca a fondare una felicità terrena
nella consapevolezza dei limiti dell'uomo e del suo essere necessariamente
un ente finito, in contrapposizione con la tradizione cristiana
(vgs., in particolare, La salvezza senza fede) – riflette sul
fatto che nella morte in qualche modo si è sempre soli,
ma questo non è di per sé un danno. Se la rimozione
della morte ammala la società di falso ottimismo, la morte
privata, la sobrietà e il pudore danno alla morte una dignità
forse più alta di un pubblico cordoglio, ritualizzato e
senza amore». (Iarumasami) |
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